SOTTO LA CAMPANA, TRADIZIONE ALLA BRACE
Sono poche le cose che abbiamo ereditato direttamente dai tempi preistorici, ma una che senza dubbio ci aggancia al passato più remoto è il cibo. Per quel che riguarda la sua preparazione non esiste metodo che, dalla sua comparsa a oggi, abbia subito meno trasformazioni della cottura sotto la campana.
In croato la campana è detta peka o pekva, ma è nota anche come čripnja, crijepnja, pokljuka, vršnik, pokrivača e sač. Si tratta di un semplice coperchio di terracotta o metallo, destinato alla preparazione di vivande su un focolare aperto. In base alla forma le campane possono essere suddivise in due tipi fondamentali: quelle campaniformi, appunto, e quelle a forma di scodella, di solito con un’ansa sommitale o con due anse laterali. Molte le varianti locali, con o senza anse, talvolta munite di ampi margini per trattenere la cenere e di fori per lo sfogo del vapore.
Le campane rientrano nella ceramica di grezza fattura, cui sono aggiunte sabbia, pietre o conchigliette sminuzzate, che le pongono in grado di sopportare un forte stress termico; risultano inoltre aggiunte di pula e di peli di capra. Il loro diametro varia da 20 a 60 cm e l’altezza da 10 a 40. In epoca preistorica venivano fatte a mano, dall’antichità in poi sulla ruota del vasaio.
Sotto la campana il cibo viene cucinato direttamente sulla superficie calda del focolare oppure su un basso vassoio o piano di cottura; la campana è precedentemente riscaldata fino all’incandescenza e poi ricoperta da braci e cenere rovente: si lascia così per alcune ore. È un metodo che ai primordi rappresentava un considerevole progresso rispetto alla cottura sulla viva fiamma. È possibile che derivi dalla precedente prassi di avvolgere il cibo in certe foglie o di ricoprirlo con un sottile strato di argilla prima di venir adagiato sulle braci; un metodo la cui semplicità e praticità, una volta che venne perfezionato, ha reso la campana un utensile da cucina assai popolare e diffuso in tutto il mondo mediterraneo.
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LA CAMPANA NEL TEMPO
Le prime campane da cottura appaiono nella tarda età del bronzo, in seno alla cultura dei campi di urne. In Croazia risultano nei siti di Erdut, Kiringrad e Bregana, aree da cui, attraverso i Balcani occidentali e la costa adriatica orientale, si sono espanse nel territorio dell’Italia centrale. Verso la metà dell’VIII secolo a. C., al tempo delle migrazioni etniche, la campana passa dai suoi primari fruitori della Pannonia agli Illiri, che la adottano e la introducono nei Balcani dove non era ancora conosciuta. Le campane istriche rinvenute a Nesazio differiscono, rispetto alle usuali forme campaniformi precedenti con un’ansa sommitale, per la forma a scodella e le due anse laterali. Piani di cottura o vassoi sono attestati, assieme alle relative campane, ancora nell’età del ferro.
Nelle fonti romane la campana, che era parte integrante di ogni cucina di ogni strato sociale, viene chiamata testum e clibanus.
Le campane antiche si distinguono per il margine espanso, spesso decorato, che serviva a trattenere le braci e la cenere rovente, e che poteva pure sostituire le anse, i manici, che gli esemplari italici non presentano, mentre alcuni pezzi posteriori hanno anche un foro in cima per regolare la temperatura. Tutte le campane antiche vennero fabbricate sul tornio a mano (veloce), a differenza di quelle medievali che venivano fatte a mano o al tornio primitivo (lento). Sebbene le fonti citino campane di metallo, mancano i reperti, probabilmente a causa del valore che nell’antichità il metallo possedeva come materiale da riciclare.
In Istria gli esemplari tardo-antichi e vetero-bizantini, come quelli trovati nei giacimenti di Bettica presso Barbariga e nel Castrum di Brioni, assomigliano a quelli nord-italici, mentre le campane rinvenute nella vasta area balcanica rivelano una grande varietà tipologica e reiterano molte delle forme precedenti.
Nell’alto medio evo la tradizione dell’impiego delle campane da cottura si innesta in Italia su quella tardoantica; sembra invece che i popoli barbarici, come Avari, Ungari e Slavi, non la conoscessero e che l’abbiano adottata dalle popolazioni locali.
In Italia nel medio evo per indicare le campane da cottura si usavano termini come testo, tegamo, tigello, e tian nella Francia meridionale, klibanos (κλιβανος), gastra (γαστρα), gastrion (γαστριον) nel mondo bizantino. Nel tardo medio evo la campana di metallo andò vieppiù sostituendo quella di terracotta, in primo luogo perché era più facile da riscaldare e mantenere calda. In quello stesso periodo si diffuse nelle nostre regioni la campana di ferro, nota con il termine arabo di sač.
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LA CAMPANA NEL CONTESTO ARCHEOLOGICO E SOCIALE
Avendo subito nel corso dei millenni assai pochi cambiamenti, la campana ha conservato il suo aspetto arcaico. Per questo motivo è un problema datarne l’età in base alla tipologia; sovente possiamo farlo unicamente tramite reperti collaterali rinvenuti all’interno di unità archeologiche chiuse.
Il contesto in cui le campane sono state ritrovate conferma che esse furono di solito prodotti locali, e non manufatti di una produzione specializzata, destinati a scambi con altre terre. Ad esempio, in Slavonia, le campane vengono talvolta associate alla categoria della „ceramica femminile“, prodotti cioè che le donne realizzavano con l’aiuto di forme di argilla per le necessità delle proprie famiglie. Nel giacimento sloveno di Stična, datato all’età del bronzo, una campana è stata scoperta in situ sul focolare, probabilmente nello stesso posto in cui venne usata per l’ultima volta, mentre nel giacimento medievale ungherese di Békés-Ditér ne è stata trovata una poggiata su due mattoni, dove un tempo veniva arroventata prima di essere usata per cucinare.
Sebbene come oggetto di uso quotidiano la campana si incontri di solito negli insediamenti abitati, una è stata trovata altresì nella necropoli a incinerazione di Ruše, presso Maribor, usata come coperchio di urne, il che secondo il parere di K. Vinski Gasparini è „probabilmente il riflesso di un rituale funebre in cui la campana, in quanto simbolo del pane, ossia del frumento e della fertilità, rivestiva un determinato significato“.
In alcune regioni dell’Africa settentrionale e dell’Iraq le campane sono associate alla vita nomade. Non sorprende perciò che anche i soldati romani e bizantini le abbiano usate come forni portatili.
Poiché nell’antichità erano i forni urbani (pistrinae) a coprire le necessità di pane dei poveri nelle città, le campane si incontrano in prevalenza nelle famiglie più agiate, ma anche nelle zone rurali in cui la gente doveva essere autosufficiente. Nella tarda antichità e nell’alto medio evo la più frequente comparsa di campane da cottura può dunque indicare una decadenza della vita urbana.
La campana non è mai scomparsa dall’uso. Il suo utilizzo si è mantenuto in Croazia, Slovenia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Serbia, Montenegro, Bosnia ed Erzegovina e Italia, cioè in ogni dove si è perpetuata la cultura del focolare aperto. Così, nella tradizione vasaia dell’Istria le campane venivano prodotte alla ruota nei dintorni di Castelnuovo/Rakalj e nella Čukarija (presso Colmo/Hum), zone in cui una delle sue funzioni era anche di servire da chiusura alla fornace del vasaio, in cui era messo a cuocere il vasellame di argilla.
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SOTTO LA CAMPANA
Il vocabolo clibanus è di origine greca e sarebbe penetrato nella lingua latina durante il III/II secolo a. C., nel periodo degli intensi contatti romani con il mondo ellenistico e della crescente influenza della cultura greca su quella romana. In quell’epoca si incominciò a guardare ai cuochi, prima considerati nient’altro che schiavi insignificanti, con aumentato rispetto e alla culinaria come a una forma d’arte.
Le fonti antiche riportano vari tipi di pietanze preparate sub testu. Varrone parla di un tipo di pane chiamato testuacium e Catone di un pasticcino al formaggio detto libum e del dolce denominato placenta. Apicio menziona la carne, Ovidio le verdure e Plinio vari ingredienti strani che avevano un’applicazione medico-magica. Dal canto suo lo storico Erodoto raccomandava di cucinare le foglie di papiro sotto una campana arroventata, mentre Aristofane nella sua commedia satirica Le nuvole paragona gli uomini a delle braci poste sotto la grande campana della volta celeste. Le focacce di pane cotte sotto la campana erano dette klibanites (κλιβανιτες), ma ricorrono anche termini come torta e appunto focaccia. La campana poteva inoltre venir usata per mantenere caldo il pane finché non veniva consumato, e compare pure nella Bibbia.
Un vantaggio della campana è che trattiene l’umidità, mantenendo l’impasto soffice e il pane più morbido di quello cotto all’aperto. Inoltre, la campana consente di regolare meglio la temperatura e un’esposizione uniforme, su ogni lato, della vivanda al calore, adatta alla cottura di cibi più raffinati. In proposito il medico bizantino dell’XI secolo, Simeon Seth, affermava che il pane così preparato era il più indicato a favorire la digestione.
Tuttavia la campana non poteva soddisfare il bisogno di pane della maggior parte della gente. Per questo motivo nacquero nelle grandi tenute di campagna i forni in muratura (furnus), in seguito trasferiti in città dove diventarono panifici urbani, due apparecchiature che non si escludevano a vicenda, come dimostrano gli esempi di reperti di forni in muratura rinvenuti nello stesso ambiente in cui c’era un focolare con la campana. La pratica simultanea di due diversi metodi di cottura testimonia l’uso specializzato della campana, grazie al quale essa è sopravvissuta fino all’età moderna, tanto che a tutt’oggi la troviamo sia nelle famiglie sia nella ristorazione.
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CATALOGO
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Sotto la campana, tradizione alla brace
Mostra
Via Carrara 4, Pola
Una finestra sul passato
3. 12. 2019. – 3. 2. 2020.
Autore della mostra e del testo:
Veseljko Bašić
Organizzatore ed Editore: Museo archeologico dell’Istria: Archaeological Museum of Istria
Rappresentante dell’Organizzatore e dell’Editore:
Darko Komšo
Redazione:
Darko Komšo, Adriana Gri Štorga, Katarina Zenzerović
Autore dell’allestimento, veste grafica:
Vjeran Juhas
Autore delle fotografie:
Vjeran Juhas
Disegni:
Ivo Juričić
Coordinatrice della mostra:
Monika Petrović
Traduzione italiana:
Elis Barbalich-Geromella
Traduzione inglese:
Neven Ferenčić
Correzione dei testi:
Irena Buršić, Adriana Gri Štorga,
Milena Špigić, Katarina Zenzerović
Stampa: MPS Pula
Tiratura: 500
Pola, 2019.